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La fine di un “annus horribilis”: la riflessione del Prof. Tagliapietra

30 December 2020
Philosophy

Articolo a firma del Prof. Andrea Tagliapietra, Ordinario di Storia della Filosofia presso l’Università Vita-Salute San Raffaele e Direttore di ICONE – Centro Europeo di Ricerca di Storia e Teoria dell’Immagine

Novità e paura del cambiamento

Come vorresti che fosse il futuro? Date un’occhiata agli oroscopi e ai pronostici del Capodanno scorso: chi aveva anche solo vagamente previsto la catastrofe globale della pandemia e tutti i cambiamenti che sono accaduti nel terribile e singolare 2020?
È consuetudine che, sulla soglia dell'anno, i giornali e le TV interroghino quanto c’è di meno scientifico, ovvero gli astrologi. Forse perché gli astri, come scriveva Roland Barthes, "non postulano mai un rovesciamento dell'ordine", ma "influenzano, settimana per settimana, rispettosi dello statuto sociale e degli orari padronali". Insomma, vogliamo le novità, ma abbiamo paura del cambiamento.
I pronostici di Capodanno traducono, in realtà, aspettative tranquillizzanti, rassicurazioni di cui abbiamo bisogno per esorcizzare l’insicurezza che ci assale di fronte al pensiero dell'assolutamente nuovo, dell'incontrollabile, dell'imprevedibile, che irrompe prepotentemente nelle nostre vite e le trasforma. Che cosa possa significare concretamente questa irruzione dell’imprevedibile è sotto gli occhi di tutti mentre sta per finire quest’annus horribilis.

Il ruolo di festività e ricorrenze rituali nella società

Nelle società tradizionali le Feste servivano a imbrigliare nelle ricorrenze rituali del calendario l’angosciosa fuga rettilinea del tempo verso l’ignoto del futuro, proteggendo, con la memoria mitica evocata dal rito, gli individui e le comunità dalla caduta, altrettanto abissale, nell’oblio del passato. Ciò avveniva, spesso, in coincidenza con gli equinozi, ovvero con gli intervalli stagionali scanditi dal moto apparente del sole e dal suo ciclico ritorno, come il Rosh haShana ebraico a settembre e il Nowruz persiano in marzo.
Altre culture, come quella cinese e quella islamica, combinando l’anno solare con la successione lunare dei mesi, complicano il calcolo del calendario e, quindi, la corrispondenza con le date di quello occidentale e ora globale.

Si tratta del calendario gregoriano (prende il suo nome da papa Gregorio XIII) in vigore in Europa e nelle colonie europee dal 1582, modellato sulla liturgia cristiana, che avvicina il Capodanno al Natale.
Nelle culture premoderne il modello del presente era il passato, sicché l’attenzione per il calendario, talvolta ossessiva, come presso gli Inca e i Maya, era fondamentale.
Nel Medioevo, in assenza di dispositivi per la misurazione precisa del tempo, la determinazione della data delle festività era il compito dei monaci, che si dedicavano al computus dei giorni e delle settimane. Si tratta del termine latino che descrive quell’attività assidua di calcolo da cui deriva la modernissima parola "computer".

La concezione ciclica del tempo

Anche noi, oggi, a partire dalla figurata malia degli oroscopi e del ciclo dello zodiaco di cui si diceva all’inizio fino alle previsioni più o meno scientifiche degli esperti in cui si frammenta il nostro sapere, fingiamo che sia possibile padroneggiare il tempo, chiudendolo in un cerchio, con un inizio e una fine, o in un bilancio, con un preventivo e un consuntivo. Del resto, proprio l’anno così crudelmente diverso che abbiamo vissuto ci mostra quanto la nostra vita sia legata alle ripetizioni e alle abitudini, molto spesso inessenziali, e quanto ciascuno di noi abbia bisogno di credere che, in fondo, il futuro non sarà che una tranquilla prosecuzione del presente.

Nascita e responsabilità nei confronti del futuro

Ma riflettiamo laicamente sull’occasione che il nostro calendario ci offre: quell’associazione simbolica poderosa che accosta la venuta al mondo di Gesù e l’inizio del nuovo anno, ponendo il futuro sotto il segno della nascita di un bambino.
Nascere è il modo con cui concepiamo positivamente l’accadere della novità più radicale, quella dell’evento che cambia la nostra vita e che rispecchia ciò che, all’inizio, le aveva dato avvio. Non a caso, quando viene al mondo un bambino, al di là di ogni silenico pessimismo, siamo soliti usare l’espressione "lieto evento".
Eppure, forse non riflettiamo a sufficienza sulla più sorprendente e difficile responsabilità che ogni nascita implica, ovvero quella nei confronti del futuro e della sua apertura. Il presente, che sembrava esaurire la prospettiva di senso delle nostre vite, con modeste incursioni nel futuro prossimo dei desideri individuali, improvvisamente si restringe e fa spazio ad un avvenire che dobbiamo far crescere, alimentando, con esso, la possibilità di essere diversamente e di cambiare, di prendersi cura delle vite di altri oltre a noi stessi.

La socializzazione della paura

Così il baricentro della nostra esistenza si sposta. Accogliere una nascita cambia improvvisamente il senso delle nostre paure: non più la difensiva e privatistica paura di, ma la socializzazione della paura, l’espansiva paura per, ossia la preoccupazione per ciò che ci è stato affidato.
La paura per è il pensiero-sentimento fondamentale che esercitiamo nei confronti delle persone amate e di tutto ciò che ci sta a cuore, e che, se assecondato, educato e coltivato, giunge ad ampliarsi fino all’orizzonte inclusivo degli abitatori umani e non umani del pianeta, ossia a preoccuparsi per la salute comune della vita delle singolarità esposte, in cui ritroviamo compresa anche la nostra. La paura per è, allora, l’estensione ospitale di quella “cura del mondo” che si prospetta come la raggiunta dimensione etica di un’umanità finalmente divenuta adulta.
Ecco allora che, mai come adesso, alla fine di quest’anno che, con sollievo, ci lasciamo alle spalle, possiamo riuscire a comprendere il significato di ciò che è autenticamente nuovo. Chissà se avremo imparato la lezione? Chissà se avremo un po’ più di rispetto per il futuro? Chissà se sapremo finalmente prendercene cura?

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