Parlare due lingue aiuta a proteggere dall’alzheimer: i proff. Perani e Abutalebi tra gli autori dello studio.
Le persone bilingui risultano più protette contro la demenza di Alzheimer, che si manifesta in questi individui in età più avanzata e con sintomi meno intensi. Parlare due lingue lungo l’arco della vita modifica infatti la funzione cerebrale, per quanto riguarda sia l’attività metabolica frontale sia la connettività tra specifiche aree del cervello, tanto da compensare i danni prodotti dalla malattia. È il risultato di uno studio pubblicato sulla prestigiosa rivista Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS). A coordinare la ricerca è la Prof.ssa Daniela Perani, Ordinario di Neuroscienze presso Università Vita-Salute San Raffaele e direttrice dell’Unità di Neuroimaging molecolare e strutturale in vivo nell’uomo (Divisione di Neuroscienze) dell’Ospedale San Raffaele, a cui hanno partecipato la Dott.ssa Maura Malpetti e il Dott. Tommaso Ballerini (entrambi PhD presso UniSR) e il Prof. Jubin Abutalebi, Associato di Neuropsicologia e Direttore del Centro Universitario di recente istituzione “Centre for Neurolinguistics and Psycholinguistics”.
“In termini socio-sanitari, le demenze sono la vera epidemia del nostro secolo visto l’aumento vertiginoso dell’incidenza delle varie forme di demenza” dichiara il Prof. Abutalebi. “Questo fatto è ancora più drammatico se consideriamo che non vi sono terapie disponibili. Quindi, prevenire o eventualmente ritardare l’insorgenza demenze sarebbe l’unico mezzo attualmente disponibile. Vari ricercatori hanno dimostrato che attività intellettive, sportive, lettura etc possono ritardare la demenza fino a 6 mesi in quanto aumenterebbero la riserva cognitiva”.
In maniera molto sorprendente, secondo recenti studi epidemiologici, essere bilingue può ritardare l’esordio di alcuni tipi di demenza senile fino a 5 anni. Tuttavia, i meccanismi neurobiologici che sottendono questo effetto protettivo sono ancora largamente sconosciuti. La ricerca guidata dalla Prof.ssa Perani, in collaborazione con l’Azienda Sanitaria dell’Alto Adige di Bolzano, è la prima a studiare un gruppo ampio di pazienti affetti da demenza di Alzheimer – 85 persone, di cui metà italiani monolingue e metà bilingui, originari dell’Alto Adige – attraverso una tecnica di imaging chiamata FDG-PET (un tipo di tomografia a emissione di positroni che permette di misurare il metabolismo cerebrale e la connettività funzionale tra diverse strutture del cervello).
I risultati dello studio rappresentano un contributo fondamentale alla ricerca dei fattori in grado di ritardare o contrastare una malattia ancora priva di cure farmacologiche efficaci.
“In linea con le precedenti evidenze, nonostante i pazienti bilingui affetti da demenza di Alzheimer fossero risultati in media più vecchi di 5 anni rispetto ai monolingue, hanno ottenuto punteggi più alti in alcuni test cognitivi volti a valutare la memoria verbale e visuo-spaziale (la capacità di riconoscere luoghi e volti)” continua il Prof. Abutalebi. L’uso della FDG-PET ha tuttavia svelato che questi pazienti, a fronte della migliore performance cognitiva, hanno un metabolismo marcatamente più ridotto nelle aree cerebrali tipicamente colpite dalla malattia, indice di neurodegenerazione, rispetto ai pazienti monolingue. Questo fenomeno controintuitivo è la prova che il bilinguismo costituisce una cosiddetta “riserva cognitiva” che funziona da difesa contro l’avanzare della demenza. “È proprio perché una persona bilingue è capace di compensare meglio gli effetti neurodegenerativi della malattia di Alzheimer” spiega la Prof.ssa Perani “che il decadimento cognitivo e la demenza insorgeranno dopo, nonostante il progredire della malattia”.
Ma quali sono i meccanismi di compensazione? Nello studio appena pubblicato, i ricercatori mostrano che il cervello dei pazienti che parlano due lingue, rispetto a quello dei pazienti monolingue, presenta una maggiore attività metabolica nelle strutture cerebrali frontali – implicate in compiti cognitivi complessi – e una maggiore connettività cerebrale in due importanti network cerebrali che sottendono le funzioni di controllo cognitivo ed esecutivo. Sarebbero anche questi meccanismi a garantire ai pazienti bilingue performance cognitive migliori a fronte della perdita di strutture e funzioni cerebrali importanti.
Attraverso un questionario costruito ad hoc sull’uso delle due lingue, lo studio dimostra inoltre che gli effetti positivi del bilinguismo dipendono anche dal livello di esposizione e di utilizzo delle due lingue. «Confrontando i risultati del questionario con quelli della PET e con la performance dei pazienti» conclude la Prof.ssa Perani «si osserva che più le due lingue sono utilizzate, maggiori sono gli effetti a livello cerebrale e migliore è la performance. Il punto non è quindi conoscere due lingue, ma usarle costantemente in maniera attiva e durante tutto l’arco della vita. Questo dovrebbe suggerire alle politiche sociali degli interventi atti a promuovere e mantenere l’uso delle lingue e altrettanto dei dialetti nella popolazione».
Questo studio conferma che l’essere bilingui attivi e durante tutto l’arco della vita aiuta a ritardare l’insorgenza clinica della malattia di Alzheimer fronteggiando la neurodegenerazione. I risultati ottenuti rappresentano uno straordinario contributo alla ricerca di fattori in grado di ritardare o contrastare malattie neurodegenerative ancora prive di cure farmacologiche efficaci.
“La figura mostra le aree di ipometabolismo, misurate con la PET. Come si evince, l’ipometabolismo è molto più esteso per i bilingui affetti dalla malattia di Alzheimer. Nonostante il maggior ipometabolismo, i pazienti bilingui riportano punteggi molto più alti sui test neuropsicologici, ovvero hanno meno problemi clinici. Il loro cervello riesce a compensare molto meglio l’atrofia indotta dalla malattia neurodegenerativa.”