Parlare due lingue ritarda l’insorgenza dell’Alzheimer: intervista alla Prof.ssa Perani
Il cervello delle persone bilingui è in grado di compensare i danni causati della malattia di Alzheimer: a scoprire le basi neurologiche di questo meccanismo neuronale sono stati i ricercatori del San Raffaele, coordinati dalla Prof.ssa Daniela Perani e con la partecipazione anche del Prof. Jubin Abutalebi, Ordinari presso la nostra Università. La notizia dello studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS), ha fatto il giro del mondo: noi siamo andati a intervistare direttamente la Prof.ssa Daniela Perani, Ordinario di Neuroscienze presso la Facoltà di Psicologia del nostro Ateneo.
Professoressa Perani, da dove nasce l’idea di condurre questa ricerca?
L’idea è nata da lunghi anni di ricerca mia e del mio gruppo nell’ambito dei correlati neurali del bilinguismo e del poliglottismo. Nel nostro cervello abbiamo un sistema utile per imparare potenzialmente tutte le lingue, e il fatto di parlare più di una lingua rinforza i sistemi del linguaggio e cognitivi. Negli ultimi anni il nostro gruppo ha pubblicato i risultati di molti studi nei soggetti bilingui nei quali dimostravamo anche in soggetti anziani proprio questo, e anche l’importanza nella modulazione di questi sistemi dai livelli di padronanza, di esposizione alla lingua, dell’età di acquisizione…tutte variabili importantissime, perché il nostro cervello è plastico ed è in influenzabile da queste variabili. Considerata questa plasticità, ci siamo interessati a studiare cosa succede in particolar modo in pazienti con demenza di Alzheimer. Il nostro interesse è stato rafforzato anche da alcuni recenti studi epidemiologici che hanno dimostrato che in popolazioni bilingui o poliglotte ci può essere un ritardo di insorgenza della demenza di Alzheimer fino a 5-6 anni.
Come si è svolto questo studio?
Per condurre lo studio abbiamo pensato di trovare dei pazienti bilingui; la nostra scelta è ricaduta sulla popolazione del Sud Tirolo, nella quale si parla italiano e tedesco. Lì abbiamo trovato la collaborazione del gruppo di Neurologia e Medicina Nucleare dell’Azienda Sanitaria dell’Alto Adige, a Bolzano: con estrema cura, il gruppo ha selezionato 45 soggetti affetti da demenza di Alzheimer, bilingui con alta esposizione, cioè che avessero parlato attivamente entrambe le lingue lungo l’arco della loro vita.
Questi 45 pazienti bilingui sono stati sottoposti ad un esame particolare del loro cervello: la FDG-PET, un tipo di tomografia a emissione di positroni che permette di misurare il metabolismo cerebrale e la connettività funzionale tra diverse strutture del cervello. FDG è un tracciante che ci dà un’informazione sull’attività metabolica del cervello: i neuroni consumano glucosio, e se funzionano bene, la loro attività metabolica è alta. Se però ci si ammala di una malattia neurodegenerativa, come l’Alzheimer, il metabolismo si riduce, per tanti motivi (ad esempio, perché viene meno l’attività sinaptica).
Che popolazione avete scelto come controllo?
Come controllo abbiamo preso 40 soggetti, anch’essi affetti da demenza di Alzheimer, pazienti seguiti presso l’Ospedale San Raffaele; sono stati selezionati tra quelli che sapevamo (per storia e anamnesi) fossero monolingui, cioè che non parlassero né un’altra lingua né un altro dialetto (che agisce come un’altra lingua).
Che risultati avete ottenuto?
I risultati che abbiamo pubblicato ci hanno molto impressionato: i pazienti bilingui selezionati a Bolzano avevano mediamente 5 anni in più rispetto ai monolingui. In linea con le precedenti evidenze, questo dato, che nel nostro studio abbiamo osservato con un’alta significatività, suggerisce che parlare due lingue può ritardare l’insorgere della malattia di anni. I bilingui hanno anche ottenuto punteggi più alti in alcuni test cognitivi volti a valutare la memoria verbale e visuo-spaziale (la capacità di riconoscere luoghi e volti). Tuttavia, l’uso della FDG-PET ha rivelato che nei bilingui esiste una degenerazione maggiore: nonostante le migliori performance cognitive, hanno un metabolismo più gravemente ridotto nelle aree cerebrali tipicamente colpite dalla malattia rispetto ai pazienti monolingui.
Come si spiega questo fenomeno apparentemente controintuitivo?
Questo fenomeno è la prova che il bilinguismo contribuisce a creare la cosiddetta “riserva cognitiva” che funziona da difesa contro l’avanzare della malattia. La nostra idea è che i pazienti bilingui abbiano mantenuto una normale attività cognitiva grazie alla riserva, nonostante il progredire della malattia, compensando gli effetti neurodegenerativi, e preservando i bilingui dal decadimento cognitivo per almeno 5 anni: quando la riserva si è esaurita, ecco che anche i bilingui hanno cominciato a manifestare i sintomi. Inoltre abbiamo trovato delle aree di compensazione, in particolare le strutture frontali del cervello, implicate in compiti cognitivi complessi: in queste zone ci sono dei network molto più forti nei bilingui, che noi abbiamo osservato a livelli di significatività molto alta. Sarebbero anche questi meccanismi a garantire ai pazienti bilingui performance cognitive migliori a fronte della perdita di strutture e funzioni cerebrali gravi.
Quale altra importante osservazione avete ricavato dal vostro studio?
Nei nostri pazienti, non tutti usavano le lingue con la stessa frequenza; alcuni usavano entrambe le lingue allo stesso modo, altri parlavano più frequentemente una lingua anziché l’altra, pur essendo stati bilingui per tutto l’arco della vita. Nella nostra ricerca, da colloqui con i pazienti, i familiari e uno studio dell’anamnesi, abbiamo ottenuto un “ indice del livello di bilinguismo” che ha dato un risultato molto interessante: più alto è questo indice di bilinguismo, maggiore è la forza della connettività neurale, e migliore è il funzionamento compensatorio. Non si tratta perciò semplicemente di conoscere due lingue, ma di usarle costantemente in maniera attiva e durante tutto l’arco della vita.
Su questo punto, nell’ambito delle neuroscienze c’è oggi un grande dibattito: alcuni ricercatori ritengono infatti che la riserva cerebrale nei pazienti con Alzheimer sia indotta solo dai livelli di elevata educazione e/o occupazione. Il nostro studio, invece, dimostra su basi solide neuroscientifiche, che usare due lingue, un’attività di così importante di controllo cognitivo-esecutivo, possa altrettanto (se non di più) indurre una riserva cerebrale in grado di fornire una neuroprotezione contro l’avanzare della malattia. Questo dovrebbe suggerire alle politiche sociali degli interventi atti a promuovere e mantenere l’uso delle lingue e altrettanto dei dialetti nella popolazione, specie negli anziani.
Ringraziamo la Prof.ssa Perani per l’intervista; l’articolo completo è disponibile al seguente link: http://www.pnas.org/content/early/2017/01/24/1610909114.full?sid=14082846-1189-4e5e-b416-01ba7ccfc5d9