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Scoperto un meccanismo chiave nella patogenesi del tumore al pancreas

01 novembre 2023
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Lo studio pubblicato su Nature dai ricercatori del San Raffaele di Milano individua un nuovo potenziale bersaglio terapeutico per rallentare la progressione di un tumore ancora altamente letale

In un articolo pubblicato oggi sulla prestigiosa rivista Nature, i ricercatori dell’IRCCS Ospedale San Raffaele hanno dimostrato l’importanza di un sottogruppo di cellule del sistema immunitario – i macrofagi IL-1β+ – nella progressione dell’adenocarcinoma duttale del pancreas (PDAC).   

Il gruppo di scienziati - sotto la guida del professor Renato Ostuni, Associato di Istologia UniSR e responsabile del laboratorio di Genomica del Sistema Immunitario Innato all’Istituto San Raffaele Telethon per la Terapia Genica (SR-Tiget) - hanno scoperto un meccanismo che promuove la crescita del tumore del pancreas basato sull’interazione fra i macrofagi IL-1β+ e alcune cellule tumorali con uno specifico profilo infiammatorio ed elevata aggressività.

I risultati della ricerca – sostenuta da Fondazione AIRC per la Ricerca sul Cancro, dal Consiglio Europeo delle Ricerche (ERC) e dal Ministero della Salute – suggeriscono che bloccare questa interazione potrebbe essere una nuova strategia per contrastare l’insorgenza del tumore al pancreas in persone a rischio o per potenziare le risposta all’immunoterapia in pazienti già colpiti da questo tipo di cancro.

Il ruolo dei macrofagi e dell’infiammazione nel tumore del pancreas

I macrofagi sono un tipo di cellule del sistema immunitario innato, fondamentali per proteggere l’integrità dei tessuti e attivare risposte protettive contro agenti patogeni e altre minacce esterne. Nei tumori, tuttavia, le funzionalità dei macrofagi vengono profondamente riprogrammate, al punto che queste cellule supportano, invece che contrastare, la progressione della patologia.

I macrofagi associati al tumore (o TAM) sono bersagli importanti dell’immunoterapia, poiché la loro abbondanza è generalmente correlata alla resistenza ai trattamenti, a metastasi e una scarsa sopravvivenza dei pazienti. Nel caso del tumore al pancreas, tuttavia, l’eterogeneità dei TAM e la complessità della loro interazione con il microambiente tumorale ha reso difficile fino ad oggi colpire queste cellule a scopo terapeutico.

“Oltre a essere caratterizzato da un sistema immunitario compromesso che limita l’efficacia anche delle più avanzate immunoterapie, il tumore del pancreas presenta una forte componente infiammatoria”, specifica Renato Ostuni. “Ciò è particolarmente rilevante poiché l’insorgenza di danni tissutali – e le risposte infiammatorie che ne conseguono, quali le pancreatiti – rappresentano noti fattori di rischio per lo sviluppo neoplastico.”

Da cosa dipendesse la capacità dell’infiammazione di promuovere la crescita del tumore del pancreas era finora poco chiaro: con questo studio, i ricercatori hanno definito uno dei meccanismi centrali di questo processo.

La ricerca del San Raffaele

Grazie a tecnologie innovative di single-cell e spatial transcriptomics in grado di svelare le caratteristiche molecolari di migliaia di singole cellule nel loro microambiente naturale, il gruppo di ricerca di Ostuni ha identificato un nuovo sottogruppo di macrofagi – chiamati IL-1β+ TAM – in pazienti con tumore del pancreas. I ricercatori hanno scoperto che queste cellule sono capaci di stimolare l’aggressività delle cellule tumorali nelle loro vicinanze, inducendone una riprogrammazione infiammatoria e promuovendo il rilascio di fattori che, a loro volta, favoriscono lo sviluppo e l’attivazione degli IL-1β+ TAM stessi.

Si tratta di una sorta di un circolo vizioso autoalimentato. I macrofagi rendono le cellule tumorali più aggressive, e le cellule tumorali riprogrammano i macrofagi per favorire l’infiammazione e la progressione della malattia” spiega Ostuni. Nello studio è stato anche scoperto che gli IL-1β+ TAM non sono distribuiti in modo casuale, ma sono localizzati in piccole nicchie vicino alle cellule tumorali infiammate. È proprio la vicinanza fisica tra macrofagi e cellule tumorali che potrebbe sostenere la progressione della patologia.

“Abbiamo condotto esperimenti in laboratorio per interferire con questo circuito. I risultati, seppur su modelli sperimentali, sono incoraggianti. Questo approccio ha portato infatti a una riduzione dell’infiammazione e a un rallentamento della crescita del tumore del pancreas”,

concludono Nicoletta Caronni e Francesco Vittoria, tra gli autori principali dello studio.

L’integrazione tra competenze

Lo studio è il frutto della stretta collaborazione tra ricercatori e medici dell’IRCCS Ospedale San Raffaele.  

“Ciò ci ha consentito di studiare con metodologie molto avanzate le caratteristiche del sistema immunitario dei pazienti, identificando dei nuovi bersagli terapeutici biologici”

dicono i professori Massimo Falconi, direttore del Pancreas Center, e Stefano Crippa, chirurgo pancreatico della medesima unità.

Un approccio, quello del gruppo di Ostuni, in cui la pianificazione delle attività e l’interpretazione dei risultati degli esperimenti al bancone sono perfettamente integrate con l’analisi dei dati attraverso la bioinformatica. “Un metodo interdisciplinare ed efficace, indispensabile per condurre ricerca scientifica d’avanguardia”, specificano Federica Laterza e Giulia Barbiera, biologhe computazionali autrici principali dello studio.

Il gruppo guidato dal Prof. Ostuni

Gli sviluppi futuri

I dati dello studio appena pubblicato suggeriscono che il blocco di questo loop infiammatorio potrebbe essere utilizzato per aumentare l’efficacia delle immunoterapie contro il PDAC, ma anche come strategia preventiva in soggetti a rischio.

Le mutazioni del DNA sono un elemento necessario ma non sufficiente per lo sviluppo dei tumori. Le risposte infiammatorie e il danno tissutale possono cooperare con le mutazioni per aumentare il rischio di neoplasie del pancreas”, specifica Ostuni.

Concludono quindi i ricercatori:

“Abbiamo fatto un bel passo avanti nella comprensione dei processi biologici alla base della patologia. Tuttavia, siamo a uno stato di ricerca preclinica ancora distante dall’applicazione sui pazienti. I prossimi anni saranno essenziali per identificare le potenzialità e le modalità più appropriate per agire su questo nuovo bersaglio terapeutico”.

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