Le innovazioni tecnologiche che alimentano nuove forme di lavoro, come lo smartworking, portano le organizzazioni a fare delle analisi rispetto ad elementi gestionali quali la fiducia e la responsabilità degli stakeholder coinvolti. La dr.ssa Stefania Contesini del Laboratorio Filosofia Impresa, ci guida in questa riflessione ripercorrendo esperienze, teorie e strategie avanzate.
“ Durante il lockdown imposto dalla pandemia di covid-19 molte aziende si sono trovate a dover ricorrere per la prima volta e in tutta fretta allo smartworking. Si tratta di una diversa modalità di prestare l’attività lavorativa caratterizzata dall'assenza di vincoli riguardo all’orario e al luogo di lavoro e da un'organizzazione che dipende da un progetto e da obiettivi da raggiungere. Una nuova gestione manageriale che richiede e promuove lo sviluppo di alcuni valori organizzativi, fra tutti fiducia e responsabilità.
Nel corso di questo involontario esperimento le organizzazioni che in precedenza avevano coltivato questi valori hanno avuto, pur nella difficoltà di sperimentare una nuova gestione del lavoro, buoni risultati. Quelle che invece si sono costruite su una cultura del sospetto, del controllo e della sfiducia, si sono trovate, oltre alle inevitabili difficoltà gestionali, a non poter sempre contare su collaboratori fidati e in grado di portare a termine in autonomia i compiti assegnati.
In merito alla questione della fiducia, l’approccio legato al meccanismo del comando e controllo è noto da tempo e lo smartworking lo ha semplicemente fatto emergere in tutta la sua problematicità.
“Sul finire degli anni ’30 quando lavoravo alla General Electric (…) i capi erano particolarmente attenti alla sicurezza degli impianti. La GE era particolarmente zelante nel sorvegliare gli attrezzi e i componenti meccanici per evitare che gli operai potessero portarseli via. Come risposta a questa ovvia manifestazione di sfiducia molti operai si sentivano giustificati e rubavano ogni qual volta ne avevano la possibilità (…) Quando fondammo la HP, questi ricordi erano ancora vivi e per questo decidemmo che i nostri magazzini dei componenti e degli attrezzi sarebbero rimasti aperti. Questo ci avvantaggiò in due modi: innanzitutto risparmiammo sulla sorveglianza ma soprattutto creammo un clima di fiducia che divenne il centro intorno al quale la HP fa ruotare il suo modo di fare affari”. (David Packard, 1995)
Il presupposto di fondo che anima questa testimonianza è il ribaltamento della consueta modalità di intendere il dare e ricevere fiducia. Dare fiducia, infatti, implica sempre una dimensione di incertezza e quindi di rischio, dal momento che fidarsi significa costruire una relazione positiva con qualcuno malgrado ciò che non sappiamo di lui. C’è sempre la possibilità che le nostre aspettative possano essere tradite – la fiducia può essere definita come “la convinzione che qualcosa o qualcuno sarà conforme alle aspettative” (M. Bettetini) .
Per minimizzare questo rischio mettiamo in atto delle strategie. La più comune si basa sulla convinzione che sia opportuno dare fiducia a chi la merita, ossia a chi nel tempo ha dato buona prova di sé. Il meritare o meno la fiducia dipende da alcuni criteri: l’affidabilità, ossia la capacità di mantenere fede ai propri impegni, la competenza e una certa benevolenza nei nostri confronti. Se riteniamo che il nostro interlocutore soddisfi tutti o anche solo uno di questi criteri, siamo più disposti ad accordargli la nostra fiducia. Naturalmente il rischio non è azzerato: l’altro è sempre libero di non corrispondervi. Inoltre, esiste anche il rischio intrinseco alla fallibilità del nostro giudizio quando valutiamo in base a questi criteri. Possiamo sempre sbagliarci quando giudichiamo qualcuno meritevole di fiducia.
Ciò che più conta però è il fatto che la strategia del dare fiducia a chi la merita, da sola, non è sufficiente ad alimentare quel circolo della fiducia necessario a sostenere una comunità sociale e professionale, sana e funzionante. Al tempo stesso essa non ci dà alcuna indicazione su come comportarci nei confronti di coloro con i quali non abbiamo una frequentazione ripetuta.
Ecco allora la necessità di rovesciare il paradigma: non solo e non tanto dare fiducia a chi è affidabile, ma rendere affidabile qualcuno attraverso il nostro atto del dare fiducia. Il principio è quello della fiducia responsiva: si dà fiducia a qualcuno per provocare in lui una risposta corrispondente. La tesi di fondo è che i soggetti sono responsivi agli atti di fiducia, ossia tendono a onorare la fiducia che è riposta in loro.
Che cosa significa questo principio per le organizzazioni? Significa non preoccuparsi tanto e solo di come ottenere la fiducia dei propri stakeholder, investendo in meccanismi reputazionali spesso inefficaci, ma impegnarsi soprattutto nel dare fiducia agli stessi stakeholder per riceverne altrettanta come ritorno possibile e auspicato. Questo approccio si traduce nella creazione di relazioni più fluide all’interno e con l’esterno, nella diffusione di una capacità negoziale e di tipo cooperativo funzionale a sostenere il business in una logica di creazione di valore condiviso, nella capacità di realizzare innovazione, in un maggiore benessere lavorativo.
Ma c’è di più. La fiducia, quando è data ma soprattutto quando è tradita, ha un raggio d’azione e quindi una ricaduta in termini di conseguenze, che non è mai limitata ai soli interlocutori direttamente coinvolti. Quando una particolare impresa tradisce la fiducia dei propri stakeholder diventa responsabile di minare la fiducia che i cittadini hanno nei confronti di altre imprese, in particolare di quelle che appartengono allo stesso settore. Non è un caso che nel famoso articolo Creare Valore condiviso. Come reinventare il capitalismo e scatenare un’ondata di innovazione e di crescita, apparso sull’Harvard Business Review nel 2011, a ridosso della grande crisi finanziaria di quegli anni, gli autori Porter e Kramer esordiscano con la celebre affermazione per cui il capitalismo è sotto assedio in quanto le imprese sono viste come la causa dei principali problemi sociali, economici e ambientali. La reputazione delle imprese era stata infatti fortemente incrinata da comportamenti discutibili e perfino criminali di alcune di esse. Oggi, davanti alla sfida di dare vita a un nuovo modello di sviluppo e a un nuovo modo di fare impresa vista come un soggetto sociale oltre che economico, di fronte alle dirompenti innovazioni tecnologiche che alimentano nuove forme di lavoro, è necessario che ciascuna organizzazione comprenda la responsabilità che ha verso tutti gli stakeholder ogni volta che decide di non accordare la fiducia o, peggio, di tradirla"