Rassicurare o inquietare, confermare i nostri comuni pregiudizi, oppure sorprenderci, scuoterci e farci sperimentare la vertiginosa singolarità di ciò che mette in discussione e fa dimenticare ogni preconcetto. In fondo, credere che la bellezza sia qualcosa di universale, una forma valida in assoluto e sempre uguale a se stessa, significa prima o poi scoprire dietro il paravento del bello l’uniformità dello stereotipo, la ripetitività della serie, la continuità rassicurante di ciò che è scontato e banale. C’è, invece, nella bellezza autentica la forza dell’unicità irripetibile, che irrompe nelle nostre esistenze, ci turba e ci provoca. È un’antica fallacia quella che identifica la bellezza con una forma di perfezione. Nel romanzo Antichi maestri dello scrittore austriaco Thomas Bernhard si racconta la storia di un vecchio signore che, ogni due giorni, va a sedersi su una panca della Pinacoteca di Vienna fissando, per lunghe ore, un quadro del Tintoretto. Ma egli non è lì per ammirarlo, almeno nel senso consueto del termine, bensì per cercarne i difetti, quelle piccole e grandi imprecisioni che si nascondono in ogni capolavoro. Perché, nota Bernhard, «il tutto e il perfetto non li sopportiamo». Ciò che rende un'opera d'arte un capolavoro è proprio la sua capacità di custodire il difetto e di farlo emergere, poco a poco, rappresentando quel lieve scarto d'imperfezione che solleva, sublime, il grigio manto d'ordine steso sopra il disordine multicolore del mondo. Per questo nessuno chiede alle mani degli angeli di Botticelli di essere anatomicamente perfette, né alle ninfee di Monet di disporsi diversamente sul verde cangiante dello stagno. Per questo la vicenda di Armine ci insegna che la bellezza non è un’idea celeste, né tantomeno uno stereotipo commerciale, ma la forma dell’esperienza più intensa che può accadere nell’immanenza di una vita.